Thomas Lopez (Charlie Vauselle) ha dieci anni e vive con la famiglia in Madagascar, che all’inizio degli anni Settanta ospita una delle ultime basi aeree dell’esercito francese, la 181. Suo padre Robert Lopez (Quim Gutiérrez) è ufficiale. Sua madre Colette (Nadia Tereszkiewicz), giovane e bella, gestisce il ménage familiare fra l’attenzione distratta del marito e le esigenze dei tre figli.
In quello che potrebbe sembrare un paradiso di scorci da cartolina, Thomas filtra la realtà attraverso l’immaginazione: a ispirarlo è l’eroina dei suoi fumetti del cuore, Fantômette, che sgomina bande di cattivi con infantile destrezza.
L’île rouge del francese Robin Campillo (César per la sceneggiatura di 120 battiti al minuto), in concorso al festival di San Sebastián, si apre come una favola, fra le avventure immaginate da Thomas e un Madagascar fatto di sole e pranzi all’aperto. Ma il malessere che striscia sotto le apparenze trasuda da subito. È sia privato sia sociale.
Non ci vuole molto per capire che Robert non ama più la moglie come un tempo, che la routine e le responsabilità militari lo schiacciano: risponde del suo comportamento e di quello della sua famiglia, lo dice con chiarezza. Prova a flirtare in modo inelegante con la nuova vicina, gli piace la giovinezza. Ama i suoi figli ma il metodo marziale sconfina nella vita e asciuga la tenerezza paterna. Colette non è felice, probabilmente lo sanno anche Thomas e i fratelli.
Un disagio che rispecchia quello civile, in un’isola che vede i residui dell’approccio colonialista trasformati in una forma di business.
Thomas spia e origlia le conversazioni personali e professionali del mondo adulto, che restano un enigma risolvibile solo attraverso la fantasia. Con la sua nuova amica Suzanne (Cathy Pham), corre in bicicletta e immagina storie. Quando diventa chiaro che la famiglia dovrà tornare in Francia, i sentimenti si attorcigliano in un groviglio difficile da districare: le crepe della struttura familiare diventano sempre più evidenti.
Campillo apre il flusso dei ricordi per un film parzialmente autobiografico, ispirato alla sua infanzia in Marocco. Il risultato è visivamente squisito: raffinata ed elegante, la mise-en-scène abbaglia con i colori della fotografia di Jeanne Lapoirie, scorre con precisione accademica nel montaggio curato dallo stesso regista con Stephanie Leger e Anita Roth.
Tutto è studiato, tutto arriva al momento giusto. Quando Robert regala ai tre figli tre piccoli di coccodrillo, lo sguardo vitreo dei tre animali fa rabbrividire: una decisione eccentrica che non prelude a niente di buono.
Forse è anche la raffinata sintassi filmica a rendere L’île rouge un’opera troppo oleografica, priva di sincera commozione: la simpatia del regista per il suo giovane personaggio è vagamente di maniera, il preziosismo formale è artificioso. Non è un peccato in sé, ma lo diventa quando secca l’emotività. Inaspettatamente, l’effetto è vagamente raggelante, e la storia finisce per generare una sorta di distacco: non riesce a generare quella simpatia per il piccolo Thomas che, in apertura, sembrerebbe ovvia. Anche se il giovanissimo Charlie Vauselle è una presenza promettente, e Quim Gutiérrez e Nadia Tereszkiewicz sono quasi perfetti.
E quando Campillo sceglie di abbandonare la famiglia Lopez nel finale, per chiudere con un episodio dal sapore esplicitamente politico, il gap emozionale fra L’île rouge e lo spettatore è ormai incolmabile. La denuncia della violenza istituzionale arriva troppo tardi, con una virata originale sulla carta ma cinematograficamente poco efficace, e alla fine di un film che si è limitato a rispecchiare gli eventi in una formula spesso più meticolosa che autentica.
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